( Taiji Kase Sensei )
Il termine kata ricorre in tutte le arti tradizionali giapponesi e può essere tradotto come “forma” o “modello”. Una definizione particolarmente significativa è quella proposta dal Maestro Kenji Tokitsu: “sequenza composta da gesti formalizzati e codificati, sottesa da uno stato di spirito orientato verso la realizzazione della Via”.
Nella scuola Shotokan esistono circa trenta kata, ciascuno dei quali comprende dai venti ai sessantacinque movimenti. Essi rappresentano la simulazione di un combattimento reale e costituiscono un elemento essenziale per la trasmissione delle tecniche di combattimento.
Tale trasmissione, tuttavia, è possibile solo se l’avversario viene evocato con forza nell’immaginazione del praticante. Oggi, purtroppo, la pratica del kata è spesso orientata soprattutto al raggiungimento di risultati agonistici e quindi estetici. Questo approccio rende l’esecuzione più spettacolare, ma al tempo stesso la svuota di significato, soprattutto per l’assenza dell’avversario immaginario. Di conseguenza, viene meno anche l’efficacia reale delle tecniche che il kata dovrebbe trasmettere.
Nel nostro Centro, il lavoro sui kata è orientato a mantenere viva la presenza dell’avversario nella pratica, evitando che il kata si riduca a una semplice sequenza di movimenti gestuali privi di significato. Studiare un kata non può e non deve limitarsi all’automatizzazione meccanica delle tecniche, né tantomeno essere finalizzato esclusivamente al raggiungimento di un risultato sportivo.
Il karateka è chiamato a esercitare un costante controllo su di sé. E le cose da osservare, correggere e affinare sono moltissime. Un errore corretto può sempre riemergere, perché in quanto esseri umani siamo in continua evoluzione. L’inevitabile processo di cambiamento e invecchiamento impone continui aggiustamenti nella tecnica e nella gestualità.
Ma lo studio non si ferma qui. Si apre davanti a noi anche l’approfondimento del bunkai, e anch’esso segue un percorso di progressiva evoluzione. Il primo livello è l’Omote Bunkai: un’interpretazione letterale e dimostrativa delle tecniche del kata. È fondamentale per imparare a visualizzare l’avversario durante l’esecuzione. Senza questa visualizzazione, non può emergere il kime, che è soprattutto intenzione e decisione. Senza “immaginare” l’avversario, non riusciremo a “sentire” realmente le tecniche, siano esse attacchi o difese.
Il passo successivo è l’Ura Bunkai. Ura significa “dietro”, “nascosto”: qui, la dinamica gestuale viene analizzata in profondità e scomposta, aprendo la strada a un’infinità di applicazioni possibili. L’Ura Bunkai può avere diversi obiettivi: ad esempio, l’esecuzione continua e ravvicinata dell’intero bunkai può aiutare a sviluppare una maggiore percezione del corpo dell’avversario e a migliorare la capacità di anticiparne i movimenti ciò che gli okinawensi chiamano Muchimi. In alternativa, si può lavorare sulla velocità e sulla potenza, suddividendo il bunkai in singole tecniche o brevi sequenze. E così via... le possibilità sono davvero inesauribili.
Infine, vi è l’Honto Bunkai: l’applicazione “reale” del kata. Qui la distanza è scomoda, l’uke non è collaborativo, e gli attacchi sono imprevedibili, disordinati, “sporchi”.
Tutto questo lavoro, questo studio, questa ricerca sta dietro ogni singolo kata. Ed è per questo che non basta una vita per comprenderli davvero fino in fondo.